Il pubblico adora Kate, le movenze aggraziate e affascinanti, la voce unica e cristallina, il romanticismo così inglese, senza retorica, così ottocentesco; nessuno sembra interrogarsi sulla stranezza di una autrice che, ancora adolescente, ha già scritto centinaia di canzoni, e che, prima ancora di aver pubblicato un solo disco, ha stregato con la sua sonorità un mostro sacro come il trentenne ma già reduce David Gilmour.
Tutti sanno cosa aspettarsi dalla bambina prodigio un po’ cresciuta. E così Kate, in due anni, sfascia tutto. Quando, nell’‘82 inoltrato, esce “The Dreaming” le reazioni sono sconcertate.
Il romanticismo cede posto alla psicologia del profondo e all’antropologia.Gli incubi saltano a tempo di valzer e di vaudeville, e il mito di Houdini sposta le lancette di Kate indietro da Emily Brontë a Mary Shelley.Suoni inauditi del Fairlight (Peter Gabriel 4 uscirà solo 6 mesi dopo), ma lo shock vero è la voce: Kate la strazia, la contorce, urla, la infantilizza, produce ecolalie e versi animali.
L’album è largamente anticipato dal tribalismo singhiozzante e isterico di “Sat in Your Lap”, probabilmente il primo e ultimo 45 giri della storia dedicato a problemi di epistemologia e filosofia dell’apprendimento. Kate, come tutte le persone eccessivamente intelligenti, si interroga ossessivamente sulla vacuità della conoscenza, e sul rapporto tra conoscenza e felicità, e nel video che accompagna il brano mette in primo piano il cappello d’asino (asino che sarà uno dei soggetti ricorrenti lungo tutto il disco). L’accoppiata di testo sconcertante e musica altrettanto (gli irlandesi Virgin Prunes cominceranno ad essere vagamente visibili solo tra due anni) impacchetta il primo fallimento a 45 giri dell’eroina.
L’idea che tutto sia fuori controllo, dentro ancora prima che fuori, erompe nella successione delle tracce del nuovo album: tutto sembra alludere all’instabilità, e come questa sia costantemente innescata da stimoli interni ed esterni di molteplice natura.
In “There Goes A Tenner” si comincia tutto sommato piano, lasciando scorrere sulla pelle i brividi del crimine organizzato, in forma di filastrocca infantile a passo di marcetta, con le prime cineserie vocali, e il basso che suona come quello di Mick Karn ma è quello di Del Palmer (fortunato boyfriend della signora all’epoca); ma, in fondo in fondo, e al di là del piacere del rischio, il furto è un comportamento disdicevolmente razionale…
E allora, il viaggio al termine della notte, dettato dall’incredibile basso (stavolta) di Danny Thompson, introduce alla follia assoluta della guerra, vista dalla prospettiva molto animale di un guerrigliero vietcong; la presenza della religione, sotto forma di un ciondolo con un piccolo Budda, sta solo lì a dimostrare l’assoluta labilità della compassione umana, e di come la religione e la spiritualità diventino, nel migliore dei casi, spettatrici ininfluenti nel mattatoio della violenza umana. Gli strumenti a corda e le tastiere disegnano gli odori, la voce grattuggiata di Kate evoca impasti di istinto e sangue.
La fuga è nel sogno delirante di “Suspended in Gaffa”: l’organetto a manovella e il bodhràn accompagnano in tre quarti il delirio adolescenziale d’amore di una Alice qualsiasi (o una giovane Lady Chatterley qualsiasi) alle prese con la prima paura ed attrazione infinita per il giardino proibito. Miracolosamente, si distinguono punto per punto i movimenti delle labbra e della lingua di Kate mentre spiccica ghirigori di parole.
Ma la sessualità può diventare qualcosa di terribile: “Leave It Open”, come altre tracce del disco, allude morbosamente, dice senza non dire (a differenza del Peter Gabriel di “Intruder”), e suggerisce con discreta chiarezza ed angoscia il tema della violenza domestica sui bambini. La chiave musicale è una disco cadaverica che fa appello senza equivoci al vero alter ego di Kate, John Lydon, e ai suoi primissimi Public Image Ltd.
Forse la soluzione è negli archetipi più profondi: “The Dreaming”, perfetta sintesi tra il minimalismo tribale e il bardo celtico che tornerà più avanti nel percorso musicale di Kate, lascia esprimere lo spirito del mondo in tutte le sue forme, nella decodifica allucinata ed ancestrale degli aborigeni, e con tutte le voci che Kate incarna non imitando ma “sentendo” (provate ad ascoltare la pecorella che bela). E forse sarebbe il caso di cominciarsi ad interrogare più seriamente sulla direzione del flusso di influenze tra Kate e Peter (l’impressionante somiglianza con “The Rythm of the Heat” dice molto, e l’interpretazione lunatica ed asmatica di Kate riesce ad essere più credibile del pezzo del collega che vedrà la luce pubblica qualche mese dopo.
“Night of the Swallow” passa ovviamente inosservata, soprattutto per il finale depistante, ma è probabilmente il testo più limpido della storia della musica pop sulla percezione femminile della sessualità nei suoi aspetti meno omologati (chissà se Lou Reed ha mai ascoltato questo brano…). Manuale pratico di codici vocali femminili, col basso nella parte dell’utero, e la cornamusa necessariamente delle tube.
Il disco va a chiudersi sull’area tematica più difficile: il rapporto con la morte e con i defunti.
“All the Love” anticipa certa filmografia che tanto successo ha avuto negli ultimi due decenni: probabilmente, tra le stranezze e le aberrazioni della vita quotidiana, parlare con i trapassati è qualcosa di meno straordinario di quanto si potrebbe pensare, e Kate si era già affacciata sul tema con la voce fantasma di Catherine che parla alla finestra di Heatcliff. Il tango sa di Satie, e le percussioni organiche, oltre al basso jazz pizzicato, sostengono la voce di Kate che, in mezzo ai fantasmi, indianeggia.
“Houdini”, il perno del disco, si scioglie in emozioni dolci e sfuggenti, che sembrano mancare il (non) senso stesso della vita: gioca coi fanti… la piccola, infantile, tenera dimensione magica degli umani, il trucco del prestigiatore, viene riassorbita in un punto di fuga insondabile e senza spiegazioni. La struttura della canzone è saltata (nonostante l’evocazione del jingle jangle), e si passa in un continuo di temi musicali e di arrangiamenti diversi. Un musical in 3 minuti e 45, dove forse prevale il contrasto tra il rollio delle percussioni di sapore indonesiano (acqua?) e le pelli giapponesi (terra?).
Alla fine, c’è la dichiarazione esplicita della malattia mentale e della incomunicabilità (“Get Out of My House”), che non è affatto un disagio personale, ma la capacità dell’artista di rappresentare l’umanità individuo per individuo; torna l’asinello, con i versi stilizzati da Kate, a rappresentare il senso vero dell’esistenza (sopportare senza capire), e ad aprire uno squarcio sul disco che seguirà (Hounds of Love), dove la torcia dello psicanalista aiuterà ad accendere una luce di maggiore serenità, e Kate trasformerà le folgoranti intuizioni di questo ultimo brano in materiali da alta classifica. Il disco, prodotto e scritto da Kate è un totale flop commerciale.Ci vorranno circa 20 anni per cominciare a capire di che si tratta.La metamorfosi necessaria, la libertà di staccarsi dal pubblico, di seguire una vocazione, ha prodotto il capolavoro.
Davide Bacchiddu