Il mio primo impianto, mid-fi, classe 1978, aveva come sorgente il giradischi Technics SL2000. Un classico, best-seller dell’epoca: il primo trazione diretta a basso costo (si fa per dire: era più di mezzo stipendio…), fatto fondamentalmente di plastica, con misure di rumore e wow&flutter eccezionali in relazione al prezzo.
Da bravo tecnico in erba, esibendo le misure, tutto tronfio (come direbbe Carlo Verdone) spernacchiavo gli amici che invece seguivano scelte più tradizionali: i Lenco a puleggia e, chi poteva, i Thorens a cinghia (l’esoterico era di là da venire).
Il mio ampli non era da meno: AKAI AM2600. Un integrato giapponese 2x65W, senza alcun blasone e dalle protezioni implacabili contro i carichi difficili.
In tempi recenti è stato molto ricercato nell’usato vintage e misteriosamente accreditato di un insospettabile “buon suono”. Ma per me, al tempo (e anche dopo), aveva come caratteristica principale, in relazione al prezzo da classe media (che al tempo significava quasi 1 stipendio), la bellezza del frontale.
Quindi, segni particolari: bellissimo. Frontale di alluminio spazzolato, pieno di manopole luccicanti, di levette di commutazione, e completato dall’immancabile coppia di VU-meter illuminati. Ambrati. Ipnotici nella loro danza vivace anche a bassa potenza, impostando il fondo scala a circa 3W tramite una levetta.
Un’inserzione francese ne chiede 620€. E con ciò ho capito che la legge Basaglia è stata applicata anche oltralpe…
Bene, nei primi anni ’80 il mio compianto cugino Francesco-BillyBis, già spirito guida del mio racconto Audio, ergo sum – le mie scatole sonore, pubblicato da queste parti, mi chiese di cercare di vendere sulla piazza di Roma uno dei due Thorens TD126-mkll di cui era entrato in possesso e che nella provincia di Bari, ormai in piena digitalizzazione, sembravano non interessare nessuno.
Arrivati a casa mia praticamente privi di qualsiasi imballo e con il controtelaio sospeso visibilmente decentrato dalla spinta della cinta, lo inserii nel mio impianto a scopo dimostrativo e pubblicai l’inserzione di vendita.
Iniziando ad usare il giradischi con un comprensibile atteggiamento di sufficienza, disco dopo disco iniziò a raccontarmi la sua storia e lo riconobbi.
Apparteneva alla coppia di giradischi che, proveniente da chissà dove, aveva equipaggiato Radio Torre a Mare, la radio privata che, con poco più di 1 watt in antenna, partecipò nel ’77 o giù di lì alla liberalizzazione dell’etere. In realtà era poco più che il punto di ritrovo di vecchi amici di quella frazione balneare di Bari, periferica e allora praticamente deserta fuori stagione, che si riunivano in un locale con una bellissima vista sul classico porticciolo turistico pugliese.
Io mi aggregavo alla comitiva nei miei soggiorni di vacanza, ma quei microfoni videro pure il mio esordio in onda, in una serata in cui, imbranatissimo nei miei 16 anni, presentai un programma di musica psichedelica, decisamente tanto blasfemo quanto poco radiofonico.
Poi, in quelle estati di fine anni ’70, la coppia di giradischi lavorava duramente, fino a tardi, nella consolle della discoteca della località balneare. Il dj Lino, che poi era il cuggino-di-mio-cuggino, grande esperto e appassionato di musica a cui devo parte della mia alfabetizzazione musicale, faceva da maestro di cerimonia. Agli hit di stagione e alle banalità “su gentile richiesta…” non mancava di alternare scelte fuori-moda, ballabili ma di classe.
A suo modo, generosamente, cercava di “fare cultura”. Anche se la maggior parte del pubblico vacanziero stava lì per rimorchiare o per farsi rimorchiare, e della musica non si preoccupava più di tanto.
E così alle Gloria Gaynor e alle Donna Summer, ai Barry White e alle Lady Marmalade delle Labelle (tutte cose che già non erano porcherie), quando si spegnevano i flash colorati delle luci psichedeliche, si alternavano i lenti alla A whiter shade of pale (Procol Harum) o alla If you leave me now (Chicago), con la sola lampada di Wood, che consentiva di allungare le mani. E poi, sul più bello, si riaccelerava con i Disco inferno e i Car Wash, misto ad altro pop-rock stagionato, con frequenti sconfinamenti nel funky.
Il Thorens portava i segni di quella vita sregolata, di eccessi notturni, oltre che degli anni: le superfici metalliche erano parzialmente ossidate, la cappa opacizzata in più punti e la patina di nicotina mista a schizzi di bibite e cocktail mi impegnò in una lunga sanificazione.
Nel frattempo, ascoltando la musica con quel giradischi ebbi la rivelazione: col TD126 era sparito il feedback. Si era dissolta quella melassa sonora che affliggeva l’SL2000 non appena alzavo il volume di brani ricchi di bassi e che a fatica veniva attenuata dall’inserimento dei filtri passaalto a 30 o 60 Hz disponibili nell’ampli.
Incredulo, dedicai tempo alla pratica, a esperimenti e a commutazioni per verifica. Tutto confermato.
Così, quando iniziarono ad arrivare le prime telefonate interessate al giradischi dell’inserzione, rispondevo “mi dispiace, il TD126 non è più disponibile ma ho un eccellente SL2000, usato ma tenuto bene”.
Dopo qualche rifiuto, feci la gioia di un ragazzino al primo impianto, che uscì da casa mia col Technics completo dell’imballo originario. Ma anch’io fui felice di pagare ammiocuggino la corposa differenza per mantenere in casa l’attrezzo che aveva demolito i miei pregiudizi da tecnico misurone.
Ho usato quel giradischi per oltre 30 anni, e quando mi era arrivato ne aveva già una decina. Ha accompagnato la crescita qualitativa del mio sistema, continuando a rappresentare il controcanto snob al crescente uso del CD, il cui player aveva ben poco da raccontare.
L’ho venduto un paio d’anni fa tramite facebook, a qualcuno che fosse più intenzionato ad usarlo, cosa che ormai non facevo più da tempo, e spero che anche al nuovo proprietario quell’elettrodomestico mitteleuropeo, d’insospettabile austerità calvinista, possa ancora raccontare tante storie divertenti.
Francesco Sorino