Classe T e classe D
La “cosiddetta” classe T è in realtà quella che ha fatto esplodere l’interesse audiofilo per la classe D, cioè per l’amplificazione basata su una elaborazione del segnale d’ingresso, che è confrontato con un segnale triangolare ad altissima frequenza (>>100 kHz) generato localmente. Il confronto o, meglio, la comparazione, produce un treno di impulsi rettangolari, di durata variabile, che a sua volta comanda lo stato chiuso-aperto di “interruttori” elettronici -solitamente dei MOSFET- posti tra l’alimentazione ed il carico.
Il segnale così elaborato costituisce una sequenza di impulsi rettangolari in cui l’informazione è contenuta nella larghezza degli impulsi, sia positivi che negativi. Per tale ragione si parla di modulazione a larghezza degli impulsi (pulse width modulation o PWM).
Per inestricabili magie matematiche della teoria dei segnali, la stramba onda quadra costituita dalla sequenza di impulsi con ampiezza pari alla tensione di alimentazione, che troviamo in uscita dal dispositivo, contiene tutto lo spettro del segnale in ingresso, opportunamente moltiplicato in ampiezza, cioè amplificato, più una serie di componenti indesiderate, a frequenze molto più alte di quelle audio. Normalmente, ma non obbligatoriamente, tali componenti ultrasoniche sono filtrate passa-basso da una semplice rete L-C interposta tra gli “interruttori elettronici” e i morsetti di uscita.
È bene dissipare il frequente equivoco di etichettare come “digitali” questi amplificatori a commutazione. Se è vero che il segnale in uscita varia tra soli 2 livelli di tensione, ed è quindi “binario”, in realtà non c’è alcun campionamento del segnale ad intervalli fissi e nessuna trasformazione numerica del segnale in ingresso è coinvolta: tutta la circuitazione resta saldamente analogica.
Uno schema a blocchi del sistema, molto semplificato, è riportato in figura 1 (da Wikipedia) mentre in figura 2 è rappresentato il risultato della comparazione tra il segnale in ingresso e l’onda triangolare generata localmente. La larghezza degli impulsi di uscita dipende dalle intersezioni tra segnale in ingresso e onda triangolare. Ad ogni intersezione rivelata dal comparatore, si ha una commutazione del segnale che comanda gli “interruttori” di uscita.
In realtà la circuitazione è notevolmente più complessa per la necessità di adeguata controreazione, che riduce il rumore in banda audio correggendo le non linearità del comparatore in ingresso e le non idealità del generatore di onda triangolare, del modulatore a larghezza degli impulsi (PWM) e dell’alimentazione.
La classe D e la sua PWM è accreditata di apparizione nel mercato audio già nel 1964[1] col primitivo amplificatore X-10 (figura), a componenti discreti, creato e prodotto dal visionario sir Clive Sinclair, tra i pionieri dell’industria elettronica e audio inglese che crebbe intorno a Cambridge, che poi nei primi anni ’80 avrebbe guadagnato grande notorietà e breve successo globale con l’invenzione dello ZX-Spectrum, uno dei primi home computer di massa e l’unico ad aver rivaleggiato alla pari col Commodore 64.
Più concretamente, la necessaria complessità della classe D è divenuta pienamente utilizzabile solo da quando, nei primi anni 2000, è stata finalmente miniaturizzata in circuiti integrati a basso costo, di cui il chip Tripath 2024, cuore dei celeberrimi T-Amp della Sonic Impact, ha rappresentato la rivelazione al mondo audiofilo che ne ha riconosciuto doti soniche inedite in relazione ai prezzi accessibilissimi, se non irrisori (solo 39 dollari, nel 2005!). Insomma, l’ennesimo “ammazza-giganti”, soprattutto se confrontato con i ben più massicci amplificatori in classe A di pari potenza, che rappresentò un energico scossone al sonnolento mercato Hi-Fi tra il 2005 ed il 2010.
Oltre all’integrazione “in silicio”, che richiede pochissima componentistica aggiuntiva, il vero asso nella manica dell’amplificazione in classe D (la classe T della Tripath è solo un espediente di marketing inventato per attribuirsi la paternità della diffusione di quella circuitazione) è l’elevatissima efficienza energetica, cioè il rapporto tra potenza trasferita al carico e potenza assorbita dall’alimentatore.
In teoria, tale efficienza è pari al 100% ma le ineliminabili dispersioni (impedenza dell’alimentatore, impedenza d’uscita dei MOSFET dovuta alla resistenza source-drain in conduzione, più quella del filtro passa-basso) la riducono a valori solitamente compresi tra il 90% e il 95%. Valori, comunque, quasi doppi rispetto agli amplificatori in classe AB e almeno quadrupli rispetto alla classe A.
Non è mica roba da poco!
Non è solo la sezione di alimentazione ad avere un ridimensionamento e quindi un costo inferiore. Dato che la percentuale di potenza mancante, tra quella assorbita dall’alimentazione e quella trasferita al carico, è dissipata in calore, per le contenute potenze medie in gioco nella maggior parte dell’audio domestico, lo smaltimento di tale calore praticamente non richiede dissipatori metallici dedicati. Sono questi un’altra importante componente di costo degli ampli in classe AB, più “caldi”, e il più significativo collo di bottiglia per quelli in classe A, torridi.
Certo, i rivoluzionari T-Amp hanno infranto i sogni di risparmio di molti audiofili con la ridotta potenza resa disponibile dalla loro alimentazione, a batteria da 12V: 2x9W su 4 Ohm, che salivano a 2x15W con l’alimentatore esterno. Ma l’alimentatore ovviamente comportava una qualche escalation di costo, senza del resto risolvere più di tanto i limiti di corrente, necessaria a smuovere i sistemi di altoparlanti con woofer a elevata inerzia (quelli a bassa sensibilità erano già tagliati fuori, per inadeguatezza della dinamica).
Un ulteriore limite era la dipendenza dall’impedenza del carico della risposta in frequenza in gamma alta. A causa del passa-basso in uscita, impedenze di carico maggiori degli 8 Ohm nominali determinavano un’esaltazione dell’estremo superiore. Ma stiamo già andando sul sofisticato…
Del resto, col successo, emersero nel tempo anche opinioni di dissenso, tese a evidenziare come certi giudizi entusiastici assoluti andassero in realtà circostanziati in relazione al prezzo e che, data l’economicità dell’industrializzazione del primo T-Amp (niente alimentatore, contenitore di plastica misera, morsetti ridicoli, più una realizzazione piuttosto approssimativa del circuito stampato e dell’assemblaggio della componentistica) ci fosse spazio per proposte ben più mature, con miglioramenti sia delle prestazioni sonore che del valore proprio dell’oggetto.
Analisi
L’aggettivo “maturo” è proprio quello che si addice all’oggetto di questa presentazione, il LYM 1.1TF (dove T sta per “classe T” e F per “finale”). Nelle foto il look è da classico finalone high-end, bello massiccio, ma le misure ridotte (192x94x52 mm) lo fanno sembrare una versione in scala ridotta, buona per la casa dei 7 nani. O per un facilissimo e discreto inserimento in ambiente…
Il frontale spesso 4 mm ha scritte incise (e non serigrafate!) e si distingue per una spia OL, sulla sinistra, che segnala il sovraccarico (essenzialmente il clipping). È un’evenienza rara quando si maneggiano bestioni da oltre 200W/canale, ma a queste potenze massime in gioco, avere la percezione del limite è essenziale per mantenere l’ascolto ottimale. Ma la stessa spia si rivela utilissima per segnalare anche l’intervento delle protezioni incorporate nel chip, sia termica (con intervento ON-OFF a 155° e 105°C) che contro il corto circuito in uscita (corrente limitata a circa 7A).
Sulla destra del pannello frontale c’è invece l’utile selettore a levetta tra i 2 ingressi (figura). È una presenza singolare, per un amplificatore finale, e suggerisce l’uso in abbinamento diretto a sorgenti dotate di un proprio regolatore del livello di volume. Se proprio non sappiamo che farcene di un secondo ingresso linea (anche se oggi è difficile rinunciare ad un collegamento dedicato al Bluetooth…), possiamo utilizzare il commutatore per introdurre un comodo muting, semplicemente collegando i poli centrali degli ingressi 1 e 2 tramite una resistenza da 47-220 kΩ, a seconda dell’attenuazione desiderata, tra 14 e 25 dB (l’impedenza d’ingresso è 12 kΩ).
Ovviamente tale semplice modding del prodotto, da effettuarsi dall’interno, è per chi sappia tenere in mano un saldatore e per dispositivi fuori garanzia.
Sul retro (figura), oltre alle 2 coppie di connettori dorati d’ingresso e a un contatto di massa, troviamo robusti morsetti metallici dorati per le uscite (figura), flessibili ad accogliere cavo nudo o terminato con banane o forcelle, e la semplice presa coassiale per l’alimentazione a 16-19V (figura).
I possibili sospetti sulla sua apparente inadeguatezza a sostenere correnti elevate sono rapidamente demoliti dalle più razionali considerazioni tecniche sulla circuitazione interna e sull’opportunità di limitare gli spunti di corrente istantanea a carico dell’alimentatore esterno.
In dotazione c’è un alimentatore switching da 65W che, considerate le potenze e l’efficienza, sono del tutto sufficienti ma che i più paranoici potranno sostituire con alimentatori più potenti, da 90 o addirittura 120 W, magari provenienti da vecchi PC laptop.
Il solido involucro metallico racchiude un assemblaggio esemplare per pulizia e ordine, basato su componenti SMD (surface mount device). Anche i commutatori, i contatti di uscita e addirittura i LED delle 2 spie, sono terminati e saldati direttamente sul circuito stampato, per cui è assente qualsiasi tipo di cablaggio (figura).
Anche i morsetti di uscita sono connessi rigidamente al circuito stampato tramite la semplice quanto efficace soluzione di usare dei capicorda a occhiello (figura), serrati ai morsetti e saldati in piazzole passanti, adeguate a correnti anche ben superiori a quelle che saranno in gioco.
Il montaggio superficiale della maggior parte della componentistica è una scelta tecnologica precisa e convinta, presa per i vantaggi attribuiti rispetto al tradizionale assemblaggio con reofori che attraversano il circuito stampato e saldati sulla faccia inferiore (pin-through). La convinzione sulla superiore affidabilità di questa tecnica di assemblaggio si riflette in una garanzia estesa a 3 anni, per i prodotti nuovi.
In questo caso le piste sono quasi tutte sul lato componenti e la metallizzazione della faccia inferiore è utilizzata come schermatura e, soprattutto, come ulteriore superficie tramite cui dissipare quel (poco) calore prodotto dal circuito integrato di potenza, qui già dotato di un minuscolo dissipatore (figura). A tal proposito, segnaliamo che il dispositivo amplificatore montato è la versione C del Tripath 2024 che, rispetto ai predecessori, è accreditato di aver attenuato i fastidiosi rumori dovuti ai glitch di accensione e spegnimento.
La tensione proveniente dall’alimentatore esterno è internamente protetta da un grosso diodo contro l’inversione di polarità, è quindi filtrata e stabilizzata (figura) a 14V, il massimo ammesso, che consentono di ottenere 11W al clipping su 8 Ohm (il doppio su 4 Ohm).
Una generosa capacità da 10.000 µF (figura) funge da serbatoio di energia locale e garantisce la reiezione di qualsiasi rumore possa provenire da un alimentatore switching.
Sono adiacenti le 2 guide ottiche che riportano sul frontale la luce dei 2 LED-spia, anch’essi a montaggio superficiale, che completano un’industrializzazione da classe di gran lunga superiore.
Dato che il chip principale integra la stragrande maggioranza delle funzioni, il data sheet solitamente lascia ben poco spazio all’immaginazione progettuale.
In questo caso il tocco di personalità è dato dal filtro passa-basso in uscita, che è del 4° ordine (24 dB/ottava di pendenza) invece del solito 2° ordine (12 dB/ottava). L’obiettivo è un abbattimento del rumore fuori banda audio. È quindi presente il doppio degli induttori montati solitamente in prodotti simili e che, in questo progetto, sono del tipo incapsulato dalla schermatura (figura). In termini di flusso disperso e di immunità a disturbi sono pressoché equivalenti a quelli toroidali tipici dei progetti ad alta potenza. Inoltre, i chip Tripath lavorano generando internamente un’onda triangolare a frequenza particolarmente alta, di circa 700 kHz, quasi il doppio di molti altri chip amplificatori in classe D. Ciò consente di alzare la frequenza di taglio del filtro passa-basso di uscita. Frequenza di taglio più alta significa maggiore linearità in banda audio e induttori e condensatori di valore inferiore. Quindi meno spire e meno resistenza-serie per gli induttori.
Infine, a dimostrazione che non si è lesinato in nulla, il circuito è anche dotato di 2 microscopici trimmer per la minimizzazione dell’offset in uscita (figura). Una funzione considerata opzionale dal data sheet del chip Tripath
Varie misure del LYM 1.1TF sono pubblicate, oltre che nel sito del produttore, anche in un paio di approfonditi test pubblicati in rete. Purtroppo, non sono attrezzato per eseguire l’unica misura che potrebbe darmi qualche informazione in più sulle capacità di questo progetto: qualcosa di analogo alla TRI-TIM sui carichi reattivi.
Ascolto
Sono riuscito a procurarmi un LYM 1.1 in piena estate. Fa un caldo boia. Ho approfittato di una fuga dal mare per andare in città, da single. Casa è vuota. Il quartiere pure. Posso provare un amplificatore senza inibizioni di famiglia o vicinato. Opto per procedere rigorosamente alla Fantozzi: in mutande, ben equipaggiato di birre gelate e con rutto libero.
Nella catena della sorgente abituale, con CD player e streamer collegati a un DAC decente, ho accoppiato il LYM 1.1 ai più adatti tra i diffusori che ho a disposizione: le stagionatissime ESB Suona, di cui ho in casa 2 coppie e che conosco bene, avendole progettate oltre 25 anni fa e ascoltate abitualmente per altrettanto tempo. Un tempo la cui lunghezza è misurata dalla sbiadita foto tirata fuori dall’album dei ricordi.
L’abbinamento mi sembra equilibrato e l’impedenza di poco più di 4 Ohm consente una sensibilità decente, per un sistema basato su un 5”.
Certo, il modello superiore avrebbe garantito qualche dB di dinamica in più ma avrebbe pagato pegno per l’estensione in basso…
Si parte coi CD per passare allo stream in qualità equivalente, o superiore.
Per comodità riporto la playlist registrata in Spotify.
Vabbè, un’impeccabile resa della musica acustica e per piccoli gruppi è troppo facile, ma non scontata: il trio di Bill Evans[2], una musica barocca da camera, di stagione[3], voci italiane maschili e femminili, scivolano via senza sforzo apparente, mentre il plenilunio rosa[4] di Nick Drake rischiara la serata.
È ora di una birretta fresca e di passare a qualcosa di più fisico. Alzo il volume e, complice l’immediatezza dello streamer nel passare di palo in frasca senza battere ciglio, al solo sfioramento del tablet controllore, iniziano a presentarsi tanti altri vecchi amici. Il lamento consolatorio di Jackson Browne fa sopportare la solitudine, la calura e di essere in ritardo per il paradiso[5]. La disperata invocazione del pianto[6] urlata da Janis Joplin cucina a puntino la mia coratella, alla texana. Ed è subito Summertime[7]. Il termometro lo conferma. La ventata calda, di energia pura, dei primi Led Zeppelin mi promette che arriverà il mio momento[8]. Io ci voglio credere, e mi asciugo il sudore con un po’ di jazz “fresco” di Chet Baker. Ma, a differenza di Chet, io non odio l’estate[9]. Specie quando la notte inizia a rinfrescarci e stuzzica uno spuntino, magari un piatto freddo e digeribile, ma saporito, come una rustica Polk Salad[10] cucinata da una southern sweetheart. La notte ci culla soave ma, nella calma, Morfeo reclama i suo tributo e ci rende un po’ indigesto il rock fragoroso dei peperoncini rossi piccanti, che non riescono più a fermarsi[11].
Io invece mi fermo qui, perché mi accorgo che sto essenzialmente ascoltando i diffusori, che conosco bene, e che quest’amplificatore non mette e non toglie. Come è giusto che sia. Al massimo, limita. Come è comprensibile.
Ma, se un ascolto Hi-Fi completo, disinibito e coinvolgente non può prescindere dalla capacità d’impatto fisico, che sta almeno 10 dB sopra le possibilità di quest’accoppiata di nanerottoli, è anche vero che non si vive solo accumulando mattoni nei muri[12], sparando cannonate[13] e trivellando inferi tellurici a colpi di timpano. L’ascolto può essere anche semplicemente una piacevole compagnia in una serata solitaria. E di compagnia il LYM può farne quanta se ne vuole. Fedelmente. A lungo. Rimanendo sempre fresco, anche nell’estate più torrida.
Rifinitura, precisione dei bassi, ricostruzione spaziale dei piani sonori, assenza di fatica di ascolto, sono essenzialmente quelle consentite dal materiale delle registrazioni e dai diffusori scelti come partner. Il pelo nell’uovo lo si potrà andare a cercare in un eventuale futuro match di ritorno, con inserimento in una catena di riferimento. Compito facile per le sorgenti ma con le difficoltà di reperimento rappresentate nel prossimo paragrafo, sull’interfacciamento ottimale coi diffusori.
Abbinamenti
Un oggetto così compatto e leggero, rigoroso nella sua industrializzazione high-tech, di costo abbordabile e confrontabile con qualsiasi amplificatore commerciale entry-level (che difficilmente sarà comparabile, anche lontanamente, nelle scelte di materiali e d’ingegnerizzazione) si potrebbe considerare il perfetto viatico per un impiantino di approccio all’high-end, con budget entro i 1000€ (anche la metà, per il sistema in prova di ascolto).
Se solo ci fosse ancora un numero adeguato di novizi da alfabetizzare… e insensibili a mode esterofile.
Più probabile che il LYM 1.1 TF sia oggetto d’interesse da parte dei soliti attempati, per un secondo (o terzo, o n-esimo) impianto. Ma offrendo anche il gusto del possesso di un oggetto progettato e costruito dannatamente bene, senza compromessi di dignità. Per giunta con la coccarda di made in Italy. Che fa sempre la sua porca figura.
Certo, anche per godere appieno di questo LYM, occorrono ambienti raccolti e non va ammazzato collegandolo a diffusori stitici, con sensibilità troppo inferiore a 87 dB: senza l’adeguata purga di watt ci verrà restituita un’inadeguatezza dinamica, una riproduzione in formato bonsai e un frequente lampeggio del LED di clipping.
A quel punto, tanto vale usare una boom-box cinesina qualsiasi, col suo involucro in plastica colorata.
Ma non bisogna neanche commettere il facile errore di abbinarlo a elefantiaci sistemi ad alta efficienza, con molte vie e altoparlanti pesanti. I dB in più ci potranno illudere di avere più watt a disposizione e fortissimo a portata di mano, solo fino al primo colpo di grancassa, inesorabilmente troncato dai limiti di corrente erogabile e ridotto ad irritante suono “cartonoso” (o cartonaceo? o cartonico? o cartonoide?…insomma: da scatolone percosso).
Ho fatto qualche prova anche con diffusori autocostruiti di efficienza medio-alta (compatti 2 vie da circa 95 dB/1m con 2,83 V) e da 4 Ohm, per spremere qualche watt in più. La dinamica è gradevole ma, nel collegamento diretto al mio tablet, non sono mai riuscito ad arrivare al clipping. Non perché fossi così travolto dai decibel ma per l’evidente insufficienza del livello dell’uscita cuffia del mio tablet. Chi dovesse aver bisogno di tale configurazione, dovrebbe verificare questo particolare sull’hardware in proprio possesso: è brutto sottoutilizzare delle potenzialità oggettivamente già di per sé limitate.
Qualche parola sul possibile uso in biamplificazione, con un crossover elettronico a dividere il lavoro tra 2 amplificatori identici, come suggerito dalla foto “ufficiale” del produttore. È verissimo che, pensando ad amplificare un tipico 2-vie, la potenza media a disposizione del tweeter sarebbe ottima e abbondante e che quella per il woofer verrebbe alleggerita delle componenti spettrali sopra la frequenza di taglio. Ma il problema è che tali potenze medie praticamente coinciderebbero con quelle massime, a disposizione per i picchi impulsivi. Quindi, pur simpatizzando in generale per i vantaggi della multiamplificazione, sarei molto cauto sui vantaggi dinamici realmente ottenibili quando si poggia su livelli di potenza così bassi. Non mi illuderei di guadagnare più di un paio di dB, a fronte di un oggettivo raddoppio della spesa (più quella per il crossover…): forse se vi serve realmente qualcosa di più dinamico, vi conviene un finale più muscoloso.
I muscoli del LYM sono quelli di un peso piuma. Ma ben allenato e con tecnica ineccepibile. Un campione in qualsiasi match di categoria. Sul ring i suoi partner ideali possono essere dei larga-banda, membrane leggere con carichi sofisticati (per gli amanti del genere), o dei 2 vie con woofer leggero, da 6” (anche duale…), e tweeter caricato. Insomma, non materiale da mercatino. Almeno così è per i palati viziati alla lussuria dell’high-end.
Per non rinunciare alla pedaliera dell’organo e alla “botta”, quella vera, occorrerà almeno l’aiuto di un subwoofer, tagliato non troppo basso. Amen. Ma, per chi cerca l’affare nell’usato, il potenziale del mostriciattolo può essere sprigionato anche da un furbo abbinamento con diffusori âgée da 4 Ohm, come spesso sono quelli con componentistica teutonica d’annata.
Conclusioni
Questo LYM può rappresentare la razionale alternativa ai più piccoli e minimalisti degli amplificatori a tubi. Quelli con una manciata di watt e un filo di ronzio. Quelli con tanto calore e con tanta distorsione armonica “buona”. Quelli che devi accendere un’ora prima di usarli, per “mandarli in temperatura“, e che ogni tanto gli devi cambiare la “lampadina”. Quelli che puoi accoppiare solo a 2 modelli di diffusori, ormai fuori produzione (e fuori mercato) da almeno 30 anni. Quelli del “andiamo avanti così: facciamoci del male!”.
A parte il facile umorismo, sono davvero tentato di portarmi tutto nella casa del mare, per sonorizzare la vacanza: 2 bookshelf, un ricevitore Bluetooth con codec AptX, ed il gioco è fatto. Anzi, voglio esagerare, mi porto pure il DAC e lo streamer: tanto insieme all’ampli faranno poco più di 1 chilogrammo e mi consentirebbero di trasfigurare in meglio l’audio del TV e di disintossicarmi le orecchie dalla paccottiglia mobile audio dei figli.
Il posizionamento di prezzo (poco oltre 300€ il nuovo, in distribuzione diretta, ragionevolmente circa la metà nell’usato) è inattaccabile: è sufficiente fare la lista della spesa inserendo contenitore metallico (e sue lavorazioni su disegno), morsetti d’ingresso-uscita, scheda PCB, componentistica varia, adeguati tempi di manodopera per l’assemblaggio, l’imballo… Poi si moltiplichi tutto per il fattore che si ritiene più opportuno per la commercializzazione e non si troverà più spazio per pagare il progetto e un’industrializzazione allo stato dell’arte.
L’unico difetto è l’immagine.
No, non quella stereofonica.
Quella sociale.
E già! Perché nonostante questo LYM sia una versione no compromise e audiofila dello schema T-amp, chi li convince tutti gli zotici di passaggio che questa scatola da sigari non è un accessorio ma è il motore dell’impianto Hi-Fi? E che, gusti a parte, con quattro spiccioli, è capace di fare il suo mestiere dignitosamente? Senza timori reverenziali nei confronti di ampli di pari-potenza, che molti trovano più sexy, che siano abat-jour a triodo o bistecchiere in classe A.
Francesco Sorino
- [1] http://www.vk6fh.com/vk6fh/sinclair%20×10.htm
- [2] My Foolish Heart (da Waltz for Debbie)
- [3] 2° movimento dell’Estate (da Le 4 stagioni di Vivaldi – vers. T.Pinnock)
- [4] Pink moon
- [5] Late for the sky (title track dell’album)
- [6] Cry Baby (da Pearl)
- [7] da Cheap Thrills di Janis Joplin
- [8] Your time is gonna come (da Led Zeppelin)
- [9] Estate (da Live From the Moonlight – Chet Baker Trio)
- [10] Polk Salad Annie (da Black and White, di Tony Joe White)
- [11] Can’t stop (da By the way dei Red Hot Chili Peppers)
- [12] Another brick in the wall (da The Wall dei Pink Floyd)
- [13] Overture 1812 (di Čajkovskij, nella classica edizione TELARC)