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Di Don’t look up ne parlano tutti,
facciamolo anche noi!

Di Don’t look up ne parlano tutti,
facciamolo anche noi!

Ma non giochiamo ai critici cinematografici: il nome del regista non mi dice granché e non lo ricorderò, come quello di vari attori. Roba da addetti ai lavori.
Parliamone come farebbero degli amici, magari davanti al caminetto, dopo aver visto insieme il film nel sistema home theatre.
E sì, perché questo film è sospeso tra cinema e televisione. È una produzione Netflix approdata nel servizio in stream alla vigilia di Natale dopo che, a inizio dicembre, è passata come una meteora nelle sale, causa CoViD ancora troppo vuote per le ambiziose aspettative di un cast stellare (e molto costoso).

E una meteora è anche protagonista della sceneggiatura.
Anzi, essendo tempo natalizio, è una cometa. È grande vari chilometri e punta dritta sulla terra. In un mondo distratto da problemi terreni, viene scoperta per caso da una giovane dottoranda, giusto 6 mesi prima che si schianti, facendoci fare la fine dei dinosauri. Gli scienziati, rappresentati da un Leonardo Di Caprio astronomo, provano a scuotere i distratti potenti, per organizzare un tentativo di difesa. La soluzione trovata è la stessa di Armageddon: frantumare la minaccia con le maniere forti, minandola con ordigni nucleari. Con la differenza che il piano fallisce e la cometa inesorabilmente arriva a purificare un mondo impazzito (nonostante l’abuso di Xanax), intossicato da politica corrotta, dal gossip e dalle mille armi di distrazione di massa, dal consumismo sovralimentato dai grandi interessi commerciali e industriali guidati dai big data.

Una sceneggiatura catastrofica resa originale da questo epilogo con cataclisma definitivo, su cui le immagini indugiano pochissimo, risolvendo non pochi problemi di scenografia ed effetti speciali (quindi anche la colonna sonora, ben fatta, non è di quelle che fanno tremare i muri).

È invece potentissimo lo slancio morale nel denunciare come ormai viviamo in un mondo in preda a stronzate di tutti tipi. Stronzate che grazie alle connessioni dei social network sono divenute globali e hanno contagiato ricchi e poveri, colti e ignoranti, giovani e anziani.

Fin qui tutto bello. Ce n’è abbastanza per mietere premi Oscar, fare cassetta e illudere il pubblico di sentirsi antisistema, almeno per il paio d’ore che dura la pellicola.

Ma la costruzione dei personaggi, e probabilmente l’impostazione della regia, mi hanno profondamente deluso. Sarò fuori moda ma, all’interno di un dramma da “giorno del giudizio”, trovo inopportuno il tono satirico che permea non tanto i dialoghi quanto il profilo psicologico della recitazione.
E non è certo colpa degli attori, impeccabili.

Troppi personaggi sono macchiette clownesche, surreali, quasi da film comico, e li trovo incoerenti con la catastrofe imminente, non credibili, col risultato di lacerare la tensione emotiva. Su questo fronte ho apprezzato molto di più la coerenza di altri film catastrofici, come i tanti classici di Emmerich, più credibili e ricchi di pathos, nonostante finiscano praticamente sempre a tarallucci e vino.

Qui i toni comici che descrivono la catastrofe astronomica, che si rivela anzitutto catastrofe morale, sembrano volutamente tranquillizzanti. Come in un film per bambini. Magari in TV. E temo che tale sia stato considerato il pubblico: dei bambinoni, a cui dare lezioni morali ma ingaggiando come insegnante un pagliaccio dalle scarpe giganti e con la pallina paonazza sul naso. Non sia mai che qualche bambino si spaventi e si metta a piangere!

L’apice di questa dissonanza è la figura della improbabile presidentessa degli Stati Uniti, una Maryl Streep che rispolvera il cinismo sopra le righe già esibito ne Il diavolo veste Prada.
Ma risulta eccessivamente affettata anche la figura del magnate dei cellulari, che incarna insieme tutti i tycoon dell’hi-tech: Steve Jobs, Jeff Bezos, Elon Musk, Mark Zuckerberg, e i loro simili meno noti, poteri multimiliardari in grado di condizionare del tutto le decisioni della politica, anche di fronte alle scelte più drammatiche.

Ma questi difetti di direzione sono fortunatamente ben compensati dalla palpabile attualità della storia. La minaccia della cometa è evidentemente una metafora delle minacce che abbiamo già sulla terra, senza andarcele a cercare nello spazio: il cambiamento climatico, l’inquinamento, l’emigrazione di massa, l’insostenibilità dei consumi, la corsa agli armamenti nucleari e, infine, anche la pandemia.

Se la storia suona così inquietantemente attuale è perché lo è.

È attuale l’infodemia che anestetizza le masse, riducendo tutto a uno spettacolo che soffoca la percezione della gravità, comunicando la catastrofe imminente inserendola “a sandwich” tra una notizia di gossip e il Superbowl di football.

È attuale la citazione del conflitto tra realisti e negazionisti, tutti indistintamente strumentalizzati dalla politica, che li manovra, come burattini, sempre inseguendo l’interesse del momento.

È attuale la destabilizzazione della popolazione, che non sa più a chi credere, che dopo aver perduto riferimenti e valori, solo nell’incombenza del sacrificio finale, riscopre l’umanità, la solidarietà, le relazioni umane, addirittura la spiritualità.

È attuale lo strapotere economico, che diviene politico, della lobby delle grandi aziende high-tech, che ci riempiono di giocattoli da cambiare continuamente e di annessi giochi, tramite cui raccolgono le informazioni più impensabili, fino a conoscerci meglio di quanto possiamo fare noi stessi e ad assumere capacità di controllo di massa.

È attuale la marginalizzazione dei giovani e delle donne (rappresentati dalla scienziata impicciona), sempre meno credibili di un maschio maturo (il Di Caprio astronomo), censurati e costretti a sgomitare per far valere le proprie ragioni, come la dottoranda del film che, in diretta TV esplode con uno scioccante “Moriremo tutti, cazzo!“, ma che del resto ostentando costumi, linguaggio e modi poco ortodossi si guadagnano la diffidenza -o l’indifferenza- dell’establishment. L’astronomo, bianco e fotogenico, nei mass media eclissa anche il capo dipartimento NASA per le minacce spaziali, che ha il grosso difetto di essere di colore o, come indica lui stesso, di avere “solo una pigmentazione più scura della vostra perché i vostri antenati sono emigrati in Nord Europa e hanno sviluppato una pelle più chiara“.

La cosa più terribile è che Don’t Look Up, dopo due ore in cui ci scappa anche qualche risata amara, ci rende consapevoli che un’apocalisse dovuta a una cometa sarebbe addirittura una fine auspicabile: rapida, immediata, quasi indolore, mentre purtroppo, con le terrene apocalissi fatte in casa verso cui sembra andare il mondo, è molto probabile che la fine sia più lunga, più diluita, più straziante.

In giro, ho letto anche critiche nichiliste che associano il film al motto “meritiamo di estinguerci” ma le considero inopportune quanto parlare di diete durante il cenone di Natale.

Invece, vedere associare vizi e debolezze alle massime cariche mondiali non è così frequente, e in alcuni passaggi la sceneggiatura diviene addirittura coraggiosa: penso sia dai tempi del Watergate che un film americano non comprendesse la battuta “il Presidente vi ha mentito!” urlata nel prime time televisivo.

Francesco Sorino

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