La prima metà della sua produzione (in tutto, una ventina di LP in studio, escluse le partecipazioni) possiede un eclettismo raro, in cui si possono distinguere almeno cinque momenti compositivi.
Scampata la poliomielite delle epidemie dei primi anni ’50, inizia a NYC cantando il folk nei bar frequentati dai giovani radical. Scoperta e lanciata dall’eccezionale talent-scout Judy Collins, segue il vento del flower-power e si sposta a Los Angeles. A Laurel Canyon ci sono tutti quelli che contano o che conteranno qualcosa nella controcultura della west coast. A casa sua, in un’atmosfera quasi da commune, si incontrano e stringono sodalizio i “molto più che amici” Crosby Stills Nash & Young.
Ma Joni mostra presto il carattere della voce fuori dal coro: scrive Woodstock -quasi un inno generazionale- guardando in televisione un servizio sul pubblico che -praticamente seminudo- si sta rotolando nel fango causato dalla pioggia, ma presto lei si presenterà in concerto con un abito di haute-couture francese.
Il capolavoro della sua prima fase, acustica, è Blue (’71). Una raccolta di folk-confessioni, totalmente intimista e autobiografico. Nel successivo Court and Spark (‘73) Joni passa già a una ricerca di arrangiamenti più raffinati e invita artisti jazz a curare la ritmica delle session di registrazione.
In The Hissing of Summer Lawns (‘75) i testi cambiano direzione, abbandonano l’autobiografismo per abbracciare l’attenzione al costume, e al malcostume.
Hejira (‘76) consolida il flirt per il jazz e segna il ritorno all’intimismo dei testi: storie di infatuazioni passionali e separazioni pacate. Senza drammi. Razionali. Raccontate in un album nato on the road, durante un kerouachiano viaggio attraverso gli States. È un capolavoro della canzone d’autore, premiatissimo, con testi e musiche che gareggiano per primeggiare.
Questo Don Juan’s Reckless Daughter (’77) prende una direzione completamente diversa dal pop canzonettaro, per quanto d’autore. È un doppio LP (ma singolo CD) articolato, ambizioso, complesso, e certa critica miope (soprattutto straniera) non lo ha certo valorizzato.
Invece io penso sia un cardine della carriera della signora Mitchell. Solo attraverso Don Juan’s si concepisce la successiva intesa con un Charlie Mingus, ormai alla fine del suo viaggio, che proprio tramite Joni pubblica il proprio testamento artistico: Mingus (’79), superpremiato, capolavoro di jazz vocale e di esperienza di vita (Goodbye pork-pie hat)
In seguito, intervengono problemi nella Elektra/Asylum: il presidente David Geffen fonda una propria etichetta portandosi dietro la Mitchell e raccogliendo intorno a sé un’invidiabile scuderia di musicisti.
Nonostante l’artista sia ormai divenuta un’icona, ispiratrice e invitata speciale in opere di pregio, la sua produzione successiva risulta meno emozionante. Testi favolosi, profondi, qualche sperimentazione elettronica, ma onestamente non mi sono mai ritrovato a canticchiarne un brano.
Come ho detto, questo Don Juan’s non è stato apprezzato molto all’uscita, causa anche l’ambizione (che rischia di apparire presunzione) di Joni, con la sua infinita raffinatezza, così difficile da non far sconfinare in asettica sofisticazione.
È chiaro che più si va in alto più l’equilibrio è difficile, soprattutto a un personaggio come Joni Mitchell, perennemente in conflitto interiore, con una natura fondata sui dualismi: di artista e di donna, divisa tra scalcinati concerti NO NUKE e raffinati abiti firmati, tra passione e razionalità, tra abbandono e indipendenza, tra degrado in nome dei sentimenti e dignità post-femminista. Un conflitto che lei denunciava nelle canzoni-confessione dei primi tempi (A Woman of heart and mind) e che continua ad essere il filo rosso che unisce molti suoi testi, lo stimolo per la sua creatività, ammaliata dalla sensazione d’incertezza.
In Don Juan’s, a controllare gli eccessi dell’impulsività dei sentimenti o della rigida razionalità, intervengono la Joni poetessa, capace di simbolismi originali, e la Mitchell musicista, ormai matura ma in perenne sperimentazione, quella sperimentazione che la costringe al faticoso continuo confronto con nuovi collaboratori e, soprattutto, col proprio passato.
Mentre il precedente Hejira è una raccolta omogenea di foto in bianco e nero, ricche del flou delle malinconiche foschie autunnali (come nella copertina), sfumate, sublimi nella loro monotonia, Don Juan’s è invece caratterizzato dalle tinte forti. A iniziare dalla dicromia della contrastata copertina: gli altopiani color paprika ed il cielo turchese, i colori del Midwest nella bella stagione, separati da una linea d’orizzonte, sottile ma netta.
Sempre nella copertina torna il tema del dualismo, con una smagliante Joni Mitchell in cilindro ed abito scuro elegantissimo, dal quale s’involano colombe e palloncini, simboli d’innocenza e infantile purezza, a cui fa contrappunto uno scultoreo nudo femminile, sensuale, anzi erotico.
Nella title-track i versi divengono confessione: “… in me combattono l’aquila ed il serpente. Il serpente lotta per il cieco desiderio, l’aquila per la purezza…”
Ma Don Juan’s è anche l’album della ingenua sognatrice ad occhi aperti. Il tema onirico si ritrova in metà dei dieci brani ed è, ovviamente, dualisticamente contrapposto a quello del brusco ritorno alla realtà, al risveglio.
Per avere idea della levatura dell’organico basta dare un’occhiata ai credits: Pastorius, Shorter, Acuña, Badrena (praticamente tutti i Report di Heavy Weather, escluso Zawinul) più Don Alias, Airto e John Guerin, a completare una macchina ritmica di potenza forsennata. In un brano appare la voce di Chaka Khan.
La temeraria figlia di Don Giovanni parte (Overture) col rarefatto intreccio di una partitura originale per sei chitarre sovraincise, alcune accordate diversamente, e vocalizzi con effetti d’eco. Culmina con l’ingresso del basso mozzafiato di Pastorius (alzate il volume quanto potete, ma attenzione ai woofer!), ed è subito Cotton Avenue: una voce che entra in corpo e fa accapponare la pelle. Seguono Talk to Me e Jericho, due canzoni sull’incomunicabilità, non solo verbale, che spesso coinvolge le persone che meno dovrebbero soffrirne: i protagonisti di una storia d’amore. E Joni, dopo aver pregato il partner di parlarle di più, di qualsiasi argomento, lo invita a lasciar “abbattere giù i muri, proprio come a Gerico”.
Il brano più singolare è Paprika Plains, una suite di oltre un quarto dora. Dopo un inizio tutto di Joni, che si accompagna con un piano penetrante, subentra la grande orchestra, al confine tra musica da film hollywoodiano e opera contemporanea. La bucolica parte orchestrale scandisce, nella storia, un sogno-regressione all’infanzia canadese e, ancora indietro, all’America selvaggia precolombiana. Proprio quando la suite rischia di scadere nella presunzione dell’opera “seria”, ritorna la sensuale voce di Joni, ripresasi dal suo sogno di turno, e termina con un fraseggio, dalla ritmica esplosiva, tra sax soprano e percussioni (John Guerin alla batteria).
Addirittura, il brano The Tenth World, tutto percussivo-vocale, ci proietta per oltre sei minuti in un forsennato voodoo caraibico e, senza soluzione di continuità, nel samba di Dreamland. Anche in musica si conferma così un altro dualismo: quello tra la vena sinfonica-dotta e la cotta per la spumeggiante ritmica latino-afroamericana.
Insomma, Don Juan’s, a differenza dello struggente Hejira, è un album vario e godibile anche dopo moltissimi ascolti. Anzi, soprattutto dopo diversi ascolti, quando riescono ad apprezzarsene le raffinatezze degli arrangiamenti, pagate al prezzo di una non immediata orecchiabilità, complice anche l’assenza di riff ruffiani.
In compenso i testi della Mitchell sono moderne poesie, gradevoli anche alla sola lettura, con la capacità di ritrarre in dettaglio persone e situazioni anche usando poche pennellate.
Tecnicamente, questa registrazione analogica non sfigura. Purtroppo, la mia copia, acquistata di importazione USA poco dopo l’uscita, per il mio primo sistema hi-fi, aveva sull’ultima facciata un difetto di stampa che, nei tanti anni di ascolto, mi ha abituato ad un toc ogni 1,8 secondi, quasi un implacabile metronomo per gli ultimi tre brani.
Mi affrettai così ad acquistare il CD, veramente ben riversato, col minimo rumore che è lecito attendersi da una registrazione analogica multipista.
Certo è che le registrazioni separate (condotte tra Londra, New York e Hollywood) vanno a discapito della naturalezza ed è miracoloso il mix eseguito dal sapiente Steve Katz (la chitarra fondatrice dei Blood Sweat & Tears, chi se lo ricorda?).
La timbrica generale rimane decisamente “pop”, aggressiva, e la dinamica delle basi ritmiche può mettere a dura prova i diffusori. Sopra tutto, si impone la preziosa voce della signora Mitchell, estesissima, spesso controcanto di sé stessa, di stupefacente spontaneità e capacità di sfumature.
Francesco Sorino