Signora mia! Dove andremo a finire?

editoriale di Francesco Sorino

Dicembre 2021

L’argomento è “le fiere hi-fi in tempo di pandemia”.

Sono di ritorno da una Roma Hi-Fidelity tutto sommato positiva ma sofferente di mali antichi.

Anzitutto occorre plaudire all’organizzazione-Zaini: l’ora di fila scontata in ingresso penso sia da attribuire a limiti organizzativi della struttura recettiva (1 solo addetto al sacrosanto controllo GreenPass+identità all’ingresso).

Ormai, specie in tempo di pandemia, la fila non si fa più neanche alla posta, alla banca o agli uffici comunali, dove funzionano servizi di prenotazione su slot temporali, secondo l’antico valido principio del divide et impera insegnatoci dai padri. Maliziosamente penso che le centinaia di metri di fila indiana dei pazienti visitatori presentatisi già prima dell’apertura non fossero così sgradite all’organizzazione, ma quasi esibite come (presunta) prova di successo, anziché di disservizio.

Data l’età media del pubblico (ahi, ahi, ahi) ci si sarebbe aspettata la presenza di un presidio medico mobile, pronto a intervenire per soccorrere la generalizzata crisi lombo-sacrale e i frequenti casi di flebite per difetto di circolazione, sopportate stoicamente e ordinatamente dai presenti.

Certo che, se si fosse pure messo a piovere come il giorno prima, ce ne saremmo dovuti tornare tutti a casa…

Non conosco ancora i numeri delle 2 giornate ma penso che, almeno il sabato, l’affluenza sia stata quella giusta: se ci fosse stato il 50% di pubblico in più si sarebbe rischiata la paralisi, tra gli angusti corridoi che portano alle tante salette (più spesso camerette) del 1° piano e la necessità di contingentare le presenze durante gli ascolti.

Per il rapporto sulla visita alle sale che ho considerato più interessanti (e accoglienti) rimando all’articolo pubblicato nelle notizie…

Ma niente commenti sugli ascolti, perché ci ho messo un po’ di anni ad imparare che l’acustica delle sale non è mai premiante e, soprattutto, perché considero assolutamente soggettive le impressioni d’ascolto (come ho abbondantemente esposto in queste pagine digitali, nel mio precedente “Ma il cielo è sempre più blu”), specie in ambienti con acustica sconosciuta e variabile casualmente in base all’allestimento scelto dall’espositore.

È un’opinione comprovata dal fatto che nei corridoi come nel social network ho raccolto giudizi completamente antitetici sugli stessi prodotti.

Ma mettiamo il dito nella piaga: dopo 2 anni di digiuno, gli appassionati visitatori sono rimasti parzialmente delusi da alcune derive che il mondo delle mostre hi-fi ha intrapreso nel dopo-Top-Audio.

Anzitutto la rappresentanza limitata: molti dei marchi iconici, quelli di cui basta il nome o il colore per far venire l’acquolina in bocca agli appassionati, sono assenti. Non possiamo mica fingere: la crisi del settore pesa e molti distributori disertano le mostre. Che sia per economia, per snobismo o per politiche di marketing.
A questi basta ricordare l’adagio recitante che “gli assenti hanno sempre torto”.
Altri marchi sono volutamente lasciati a casa dagli espositori che hanno portafogli di prodotto molto articolati, e che magari desiderino concentrare l’attenzione del pubblico proprio su prodotti meno scontati.

Poi va registrata l’inesorabile tendenza alla scomparsa della documentazione e della comunicazione di prodotto. Misteriosamente sopravvivono alcune (poche) brochure su carta. Talvolta sono lussuose e costose, con fotografie perfette e quasi sempre sono di marchi esteri, inviate dalle case-madri, stampate all’estero e non tradotte. Rari i depliant e i leaflet perché ormai “trovi tutto sul sito”.
Ma sono solo io a pensare che se il prodotto non mi dice niente d’interessante in mostra, non me lo andrò MAI a cercare sul sito?
Da 30 anni mi occupo di marketing, di audio e di elettromedicali, e -signori espositori- un minimo di sforzo per preparare dei display da apporre sui prodotti esposti, indicandone sigla e 5 righe di informazioni ben leggibili, mi è stato sempre ben ripagato. Sono certo che sarà altrettanto per gli espositori che hanno vinto la pigrizia. Ancora di più per quelli che preparano dei comunicati stampa in cui elencare i prodotti esposti, le caratteristiche salienti e i link ai siti contenenti le informazioni più dettagliate.

Certo che è difficile fare comunicazione se le proposte si banalizzano. Si svuotano. Se i contenuti dei prodotti più ambiziosi diventano sempre più centrati solo sull’estetica ipertrofica, sulla ridondanza di materiali pregiati, sulle rifiniture certosine. Insomma: sull’apparenza anziché sulla sostanza.
Nell’edizione precedente, tra i prodotti più interessanti e discussi tra appassionati c’erano un paio di sistemi di altoparlanti tedeschi, attivi, con processore digitale, con estetica lineare, moderna, che ben comunicava i contenuti tecnologici celati all’interno. E che suonavano. Eccome se suonavano! Con prezzi alti ma non impossibili.
In questa edizione non solo non sono stati ripresentati ma non mi sembra fosse presente niente di simile.
Culturalmente lo interpreto come un brutto segnale di restaurazione conservatrice: insieme ai giradischi monumentali, presenti un po’ dappertutto ma praticamente mai utilizzati realmente come sorgenti, anche le proposte più ambiziose (e costose) erano dei “soliti” amplificatori scolpiti in quintali di metallo, collegati a diffusori scavati in legno o radica, con laccatura trasparente.
Come la credenza della signorina Felicita. Degnissimi di un tinello gozzaniano.
Insomma: la classica triade sorgente-amplificazione-diffusori. Come 40 o 50 anni fa.

In un mondo in cui domina l’integrazione, la convergenza, il compattamento, imposti dagli spazi vitali moderni. Non è un caso se le eccezioni presenti, più uniche che rare, rappresentavano le sole proposte credibili sul mercato. Nel futuro vedo necessariamente la convergenza verso sistemi semplificati, più discreti e meno invadenti, articolati tra sorgenti (tendenzialmente streamer+DAC, eventualmente con amplificazione integrata) e diffusori (tendenzialmente attivi), mentre l’high-end più all’antica rischia di essere schiacciata sotto lo stesso peso dei suoi amplificatori e sepolta dentro le sue bare impiallacciate e lucidate.
Per evitarlo occorre capire che il concorrente non è più il coordinato rack coreano. Quelli erano gli anni ’80-’90! Oggi i concorrenti dell’high-end (anche quello AV) sono le grosse boom-box, le soundbar, i personal assistant, che dilagano anche negli appartamenti di lusso, in cui ogni metro quadro vale tra i 5 e i 10mila euro e in cui le “sale della musica”, al di fuori della setta dei 5 amici puristi, procurano solo risatine di scherno.
Svegliamoci!

Infine, ma non ultima, va registrata la preoccupante preponderanza di prodotti di posizionamento economico inaccessibile, con sistemi che, aggregati, richiedono spese (che non sono investimenti) più da mercato immobiliare che da elettronica di consumo.
Sappiamo tutti che la produzione di oggetti high-end è estremamente inefficiente: progettazione, industrializzazione, spese generali vanno spalmate su numeri piccoli; gli acquisti di piccoli lotti di componentistica e di semilavorati riducono il potere di trattativa; la manodopera è artigianale, altamente specializzata e spesso eseguita dagli stessi imprenditori, che ci mettono pure il capitale di rischio;  l’offerta supera abbondantemente la domanda rendendo la distribuzione commerciale faticosa e finanziariamente onerosa. Tutti fattori che impongono un valore aggiunto importante, come normale nei mercati del lusso. Come è anche comprensibile che, per quanto detto prima, si diffonda la tentazione di puntare su oggetti che facciano il colpaccio, salvando il bilancio dell’anno con 1 o 2 vendite.
Beh, a New York ho conosciuto un venditore di jet privati che faceva esattamente lo stesso. Ma incredibilmente si vendono più jet privati che impianti milionari e quel signore se la passava decisamente bene.

Il proliferare di proposte divisive ed esclusive, che hanno pressoché eclissato quelle per comuni mortali, per quanto benestanti, ha trasformato l’high-end in un circo, un fenomeno da baraccone oggetto più di battute ironiche che di vendite, un carrozzone che perde colpi, che non è credibile come mercato, e che respinge anziché attrarre il necessario ricambio generazionale.
Infatti, per evidenti motivi anagrafici, la popolazione hi-fi si riduce di anno in anno e, considerato l’accaparramento dei tanti collezionisti, che inesorabilmente sta per arrivare sul mercato, gli appassionati potrebbero vivere anche solo di scambi, di usato e di vintage, portando rapidamente all’estinzione dei nuovi prodotti.
Sono convinto che la sfida non sia trasmettere la passione ai figli, lasciando in eredità il valvolare e il giradischi, ma fare proselitismo tra gli amici, tra i vicini di casa, tra i colleghi.

Una sfida che non si può certo vincere solo con prodotti irrazionali, insostenibili e inaccessibili.

Francesco Sorino

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